E’ tutto un po’ confuso. E va bene così. In ordine sparso… gallette di riso, lavarsi le ascelle, mettere il deodorante e il fondotinta, colazione con brioche farcita alla crema al pistacchio in uno dei bar più belli che io abbia mai visto. Un bar che ospita opere d’arte, una galleria d’arte per tutti, tra un cappuccino e un toast, dal sottile sapore sudamericano, argentino per la precisione. E, credetemi, di classe lì ce n’è tanta. Andateci, in quel bar, fa bene al cuore. E’ splendido.
Un micro cannolo alla crema con un caffè deca alle 14:50, il mio pranzo. Iniziamo spettacolo alle 15 e ci siamo cambiati nel bellissimo bagno del bar che ci dà la corrente. Proprietari super carini. Aiuta. Giuro che aiuta.
L’asfalto attorno al Grande Piano oggi sembrava così liscio e senza polvere.
Ci ho camminato scalza per qualche passo, senza volerlo fare.
Ma poi i miei piedi erano comunque puliti, come quelli di una principessa.
Rido quando dico a me stessa e agli altri che sul pianoforte cerco di sentirmi una principessa. Perché poi mentre sto guidando, col navigatore, di notte, mentre sto scaricando, mentre piego velocemente costumi e abbozzo scalette su una salvietta del bar, dove ho preso un caffè (vero, non decaffeinato) alle 5 del pomeriggio, per tenere botta fino a tardi, sono solo una ragazza, che ride alzando la testa verso il sole e che parla colorito se un camionista invade la sua corsia in autostrada.
E succede una magia ogni volta che ci provi, dici la battuta. L’hai detta mille altre volte, ma stavolta aggiungi un particolare che ti è venuto in mente in quell’istante. E nel momento stesso in cui la tua bocca pronuncia quelle parole, le tue orecchie e il tuo orecchio interno sono in ascolto.
In ascolto del pubblico. Il respiro impercettibile appena prima della risata. Ha funzionato. La tua battuta ha funzionato. E ora devi continuare a parlare. Guardando il pubblico negli occhi.
Una volta, un’insegnante di teatro mi ha detto che uno spettacolo funziona quando ogni persona nel pubblico sente che tu stai guardando proprio lei negli occhi. Ogni persona. Che siano 10, 100 o 1000, non cambia. Il tuo sguardo deve essere generoso, leggero e meravigliosamente liquido da fare in modo che ogni persona nel pubblico senta che TU la stai guardando negli occhi. Negli occhi.
Ci ho provato mille volte. Ci provo sempre.
Poi non sono mai riuscita a chiedere a ogni persona del pubblico se sembrava che stessi guardando proprio lei.
Però ci provo sempre a guardare tutti negli occhi, giuro.
Quando sono sui tessuti, o comunque sono per aria, dall’alto, mi sembra più facile…
Ma qui, quando suono il piano, siamo tutti alla stessa altezza. E i miei occhi sono a poco più di 140 cm dal suolo. E’ un grande lavoro. Ma è un onore. A volte mi perdo a guardare delle persone che sembrano avere lo sguardo di ferro. Durante tutto il brano ti fissano. Con volto fermo, un po’ scuro. Mi fanno sentire in soggezione. Poi alla fine, sono i primi che applaudono. Con grande slancio. E si lasciano scappare un grande sorriso liberatorio. Grazie.
Dico grazie, è bellissimo.
E poi sbagliare. In scena. Succede. Anche ai migliori. Figuriamoci se non succede a me.
Quando succede, non posso fare a meno di sorridere. Cerco di restare concentrata e continuare. Anche se quella nota fuori armonia sembra uno squarcio in una tela dipinta e mi dispiace. Però sorrido. In quel momento mi sento in mutande. Perizoma, per la precisione. Quelli con il filino, un po’ scomodi.
Mi sento più vulnerabile in quel momento. Come se potessi essere lapidata all’istante, ma per umanità e comprensione vengo graziata e anche applaudita.
Il pubblico a volte comprende molto più di quello che tentiamo di nascondergli.
E allora… meglio mostrarsi sorridendo come un essere che sbaglia. Ma che è felice di quello che fa.
E sono le 2:29 del mattino. Domani partiamo per la Corea e dovrei dormire. Ho mal di schiena, mal di gola e mi sento la febbre. Ma sono felice.
E sono felice di aver preso questo tempo per scrivere questo post.
Un paio di settimane fa, mentre ero nell’aereo che mi stava portando a fare spettacolo a Bucarest, ho scritto un post. Ma non l’ho pubblicato. Ci vorrà un po’. Per certe cose delicate ci vuole tempo, e modo. Arriverà.
Nel frattempo… sogni d’oro Cremona.
Un micro cannolo alla crema con un caffè deca alle 14:50, il mio pranzo. Iniziamo spettacolo alle 15 e ci siamo cambiati nel bellissimo bagno del bar che ci dà la corrente. Proprietari super carini. Aiuta. Giuro che aiuta.
L’asfalto attorno al Grande Piano oggi sembrava così liscio e senza polvere.
Ci ho camminato scalza per qualche passo, senza volerlo fare.
Ma poi i miei piedi erano comunque puliti, come quelli di una principessa.
Rido quando dico a me stessa e agli altri che sul pianoforte cerco di sentirmi una principessa. Perché poi mentre sto guidando, col navigatore, di notte, mentre sto scaricando, mentre piego velocemente costumi e abbozzo scalette su una salvietta del bar, dove ho preso un caffè (vero, non decaffeinato) alle 5 del pomeriggio, per tenere botta fino a tardi, sono solo una ragazza, che ride alzando la testa verso il sole e che parla colorito se un camionista invade la sua corsia in autostrada.
E succede una magia ogni volta che ci provi, dici la battuta. L’hai detta mille altre volte, ma stavolta aggiungi un particolare che ti è venuto in mente in quell’istante. E nel momento stesso in cui la tua bocca pronuncia quelle parole, le tue orecchie e il tuo orecchio interno sono in ascolto.
In ascolto del pubblico. Il respiro impercettibile appena prima della risata. Ha funzionato. La tua battuta ha funzionato. E ora devi continuare a parlare. Guardando il pubblico negli occhi.
Una volta, un’insegnante di teatro mi ha detto che uno spettacolo funziona quando ogni persona nel pubblico sente che tu stai guardando proprio lei negli occhi. Ogni persona. Che siano 10, 100 o 1000, non cambia. Il tuo sguardo deve essere generoso, leggero e meravigliosamente liquido da fare in modo che ogni persona nel pubblico senta che TU la stai guardando negli occhi. Negli occhi.
Ci ho provato mille volte. Ci provo sempre.
Poi non sono mai riuscita a chiedere a ogni persona del pubblico se sembrava che stessi guardando proprio lei.
Però ci provo sempre a guardare tutti negli occhi, giuro.
Quando sono sui tessuti, o comunque sono per aria, dall’alto, mi sembra più facile…
Ma qui, quando suono il piano, siamo tutti alla stessa altezza. E i miei occhi sono a poco più di 140 cm dal suolo. E’ un grande lavoro. Ma è un onore. A volte mi perdo a guardare delle persone che sembrano avere lo sguardo di ferro. Durante tutto il brano ti fissano. Con volto fermo, un po’ scuro. Mi fanno sentire in soggezione. Poi alla fine, sono i primi che applaudono. Con grande slancio. E si lasciano scappare un grande sorriso liberatorio. Grazie.
Dico grazie, è bellissimo.
E poi sbagliare. In scena. Succede. Anche ai migliori. Figuriamoci se non succede a me.
Quando succede, non posso fare a meno di sorridere. Cerco di restare concentrata e continuare. Anche se quella nota fuori armonia sembra uno squarcio in una tela dipinta e mi dispiace. Però sorrido. In quel momento mi sento in mutande. Perizoma, per la precisione. Quelli con il filino, un po’ scomodi.
Mi sento più vulnerabile in quel momento. Come se potessi essere lapidata all’istante, ma per umanità e comprensione vengo graziata e anche applaudita.
Il pubblico a volte comprende molto più di quello che tentiamo di nascondergli.
E allora… meglio mostrarsi sorridendo come un essere che sbaglia. Ma che è felice di quello che fa.
E sono le 2:29 del mattino. Domani partiamo per la Corea e dovrei dormire. Ho mal di schiena, mal di gola e mi sento la febbre. Ma sono felice.
E sono felice di aver preso questo tempo per scrivere questo post.
Un paio di settimane fa, mentre ero nell’aereo che mi stava portando a fare spettacolo a Bucarest, ho scritto un post. Ma non l’ho pubblicato. Ci vorrà un po’. Per certe cose delicate ci vuole tempo, e modo. Arriverà.
Nel frattempo… sogni d’oro Cremona.